"L'uomo cervo", incontro con Massimiliano Palmesano

“L’uomo cervo”, incontro con Massimiliano Palmesano

L’uomo Cervo” è un saggio sulla natura, sulla forza devastante dell’inverno e sulla rigenerazione cosmica. Parla di un essere straordinario, metà uomo e metà cervo. Ma non c’è bisogno di pensare a Miyazaki, perché la fonte è la più vicina “Pantomima di Castelnuovo”. Secondo il ricercatore indipentente Massimiliano Palmesano, “Gl Cierv” proviene «dalla stessa misteriosa dimensione da cui irradiano anche i racconti folklorici sulle streghe»…

L’opera è il frutto di una ricerca sul campo per analizzare ciò che poteva «essere utile – come ci spiega l’autore – a decifrare la pantomima di Castelnuovo», organizzata nella piazzetta di Castelnuovo, durante il carnevale. Qui «si manifesta un essere straordinario metà uomo e metà cervo. Stando a quanto rappresentato nella pantomima, le sue prerogative principali sono la furia selvaggia e l’estasi, l’Uomo Cervo incarna sia la forza devastante dell’inverno sia la rigenerazione ciclica della natura che si rinnova di continuo al pari del palco di corna dei cervi che cade e ricresce ogni anno. Per fermare le devastazioni operate dall’Uomo Cervo interviene sulla scena Martino, un personaggio completamente vestito di bianco, con un cappello conico e una fiaccola. Martino ingaggia una lotta con l’Uomo Cervo ma non riesce a fermarlo. In suo aiuto arriva il cacciatore che prima ammazza l’Uomo Cervo e poi gli ridona magicamente la vita soffiandogli nelle orecchie. A questo punto Gl’ Cierv torna sui monti da cui è sceso, Martino accende un grande falò e compare un seminatore che semina simbolicamente del grano lanciandolo sulla folla.»

La figura dell’uomo cervo «incarna la rigenerazione senza fine del tempo e della natura»: una figura del folclore che abbiamo sacrificato in nome del modernismo post-moderno ma che è presente nei secoli in diverse culture sia in occidente che in oriente. Abbiamo incontrato Massimiliano Palmesano durante la presentazione dell’opera all’evento “Sopra le righe”, giovedì 24 giugno presso La Fondazione Ciccio Romano – Associazione Sabba de Nuce (Via Monte Guardia – Benevento). Sotto, l’intervista (clicca sulle domande per leggere le risposte).

Chi è Massimiliano Palmesano?
Innanzitutto grazie a voi per l’interesse verso il mio lavoro. Sono un ricercatore indipendente e mi occupo di storia delle religioni, antropologia del sacro, linguistica e folklore con particolare attenzione verso la mia terra, la Campania, e l’Italia meridionale. Oltre a “L’Uomo Cervo” ho curato il catalogo 2021 del Museo Contadino di Pignataro Maggiore, sono autore delle monografie “Antonio Martone: lo storico con il microscopio” che è parte della collana “i quaderni viola – Collana di ricerche e studi storico-antropologici”, e “Stregoneria e psicotropia nella tradizione meridionale” (in “Verso la maturità psichedelica”, edizioni Anima Mundi, 2021). Collaboro con siti e riviste sia italiane (Axis Mundi, Libri & notizie) sia in lingua inglese (“Janare: the italian witches of the sacred trees”, uscito sulla rivista inglese Sacred Hoop Magazine).
Pur trattandosi di un saggio, come è stato o come è il tuo rapporto con la scrittura?
Di solito non mi cimento in quella che oggi viene definita “scrittura creativa” ma cerco comunque di non usare un linguaggio troppo settoriale o per addetti ai lavori. La scrittura credo conservi qualcosa di profondamente legato a ciò che definiamo “magia”, ovvero la sua essenza di codice simbolico capace di trasmette significati. Proprio tale tipo di connessione conferisce allo scrivere anche una prerogativa che è possibile definire “curativa”. Nel mio caso, la dimensione in cui avviene tale magia curativa ha prodotto il mio blog (microsphera.webnode.it) che è un po’ un micro universo in cui è possibile osservare da vicino le mie ricerche.
In merito all’argomento, quale metodo d’indagine hai utilizzato e quali sono stati gli autori che hai tenuto in conto come riferimenti o modelli?
Nell’introduzione al libro ho cercato di suggerire anche alcune coordinate di carattere metodologico per chiarire al lettore il punto di vista che ha prodotto l’intera ricerca. Si tratta per lo più di considerazioni che aprono a chi legge le porte del laboratorio per rendere visibile il processo di costruzione saggio. Nel libro ci sono i risultati di tanta “ricerca sul campo” (anche se non amo particolarmente questa espressione) ma anche tanto studio su fonti documentarie e saggi. Ci sono stimoli e punti di vista diversi nelle pagine del libro, ho cercato di prendere da ogni autore le riflessioni che potevano essere utili a decifrare la pantomima di Castelnuovo; ho costruito la mia cassetta degli attrezzi cercando di munirla degli strumenti più adatti al lavoro che mi accingevo a elaborare. Gli autori presenti nel libro sono tanti, a volte anche molto differenti tra di loro. Giusto per citarne alcuni: Ernesto de Martino, Carlo Ginzburg, Mircea Eliade, Julien Ries, Emile Benveniste, Giacomo Devoto, Margaret Murray, Iaon Petru Culianu, Enrico Comba, Gianfranco Miglio, Carl Shmitt, George James Frazer, Walter Otto, e la lista potrebbe continuare.
Cosa ti ha portato sulle tracce dell’Uomo Cervo? cosa ti ha spinto a dedicare studio e attenzione a questo evento e ai suoi profondi e innumerevoli rimandi nel tempo e nello spazio?
Tutto è dipeso dal caso. A tale proposito credo siano proficue le riflessioni di Carlo Ginzburg in merito alle innumerevoli implicazioni del “caso” nell’ambito della ricerca storica e storico-antropologica. A condurmi a Castelnuovo al cospetto dell’Uomo Cervo è stata infatti una ricerca – tuttora in corso – sulla figura della janara. Dal 2018 giro la Campania e le regioni limitrofe sulle tracce di questa particolare figura del folklore meridionale: venni a sapere che nel rito di Carnevale di Castelnuovo le janare avevano il compito di evocare un essere teriomorfo, l’Uomo Cervo appunto. La mente mi condusse immediatamente alle pagine di Margaret Murray ne “Il Dio delle streghe”, arrivato a Castelnuovo però mi resi conto che, nel rito di Carnevale, le janare erano state inserite solo di recente, erano parte della pantomima ma non del rito originario. Mi resi conto però, guidato dal caso, che Gl Cierv proveniva dalla stessa misteriosa dimensione da cui irradiano anche i racconti folklorici sulle streghe. Decisi allora di accogliere il suggerimento del caso e ho trascorso quasi tre anni recandomi sulle Mainarde molisane appena possibile e partecipando a due riti (2019 e 2020). Il rito di Castelnuovo, come tantissimi istituti della cultura popolare, è stato tramandato oralmente di generazione in generazione e proprio per tale ragione non esistono fonti scritte che possano darci notizie dirette utili a ricostruirne la traiettoria. Ho quindi dedicato una parte del libro alla comparazione diacronica e diatopica del rito molisano con le innumerevoli epifanie della figura dell’uomo cervo nel tempo e nello spazio. Un lavoro che però non è strutturato secondo gli schemi della comparazione etnografica, alla Frazer per intenderci, bensì secondo una comparazione morfologica, ovvero sulle forme. Forme che sono state analizzate non nella loro staticità bensì nel loro essere “in movimento”, ovvero nella loro dimensione simbolica: un’operazione che paga un innegabile tributo a quanto elaborato da Ginzburg in “Storia notturna” passando per Aby Warburg e il suo “Bilderatlas Mnemosyne”.
Tutto quindi parte da un momento comunitario, il Carnevale, con l’attualizzazione, probabilmente non del tutto consapevole, di un rito antichissimo. Come separare allora i vari strati storici e culturali? Quanto appartiene all’evoluzione del Carnevale e quanto è specifico della pantomima? Hanno forse la stessa origine?
La questione dei gradi di consapevolezza in tali ambiti specifici è ben sottolineata da Mircea Eliade, lui si riferisce all’“accesso teoretico” all’essenza sacrale degli istituti folklorici e tradizionali: il mito originario rivive nel rito anche quando chi vi partecipa abbia perso l’accesso teoretico a esso. Walter Otto nel suo “Teofania” fa una considerazione che credo sia centrale per comprendere determinate dinamiche: riferendosi alla religiosità degli antichi greci asserisce che il loro rapporto con le divinità, più di ogni altra cosa, era regolato e si basava sull’esperienza, gli antichi greci esperivano gli dèi. Una riflessione che ritengo possa essere estesa al rapporto dell’uomo con il sacro in generale: vi sono, chiaramente, diversi gradi di consapevolezza – o di accesso teoretico al sacro, per utilizzare le parole di Eliade – tutti però passano attraverso l’esperienza, è l’esperienza che fonda il rapporto con il sacro; la consapevolezza, se vogliamo, è una conseguenza diretta del grado di esperienza.
Una dinamica che ritroviamo anche nel cristianesimo: in quanti hanno la consapevolezza di quello che accade durante l’eucarestia? Quanto è profondo il loro grado di consapevolezza? Eppure, ogni giorno, da duemila anni, si ripete il mistero della trasformazione del pane e del vino in corpo e sangue di Cristo: questo dovrebbe farci riflettere sul fatto che la comprensione di determinati fenomeni passa, prima di tutto, attraverso la comprensione delle implicazioni legate all’esperienza. Per comprendere il mistero del rito di Castelnuovo bisogna parteciparvi. Il sottotitolo del libro (Pantomima, rito e mito) può essere considerato un tributo alle riflessioni di Ernesto de Martino e rappresenta il tentativo di descrivere e identificare tre differenti fasi storiche e culturali: la pantomima è ciò a cui assistiamo oggi durante il Carnevale di Castelnuovo, può essere considerata lo strato superficiale, la buccia folklorica sotto la quale si cela la polpa sacrale del rito che a sua volta custodisce il nocciolo del mito.
Conosciamo meglio il protagonista, chi o cosa è l’Uomo Cervo? Perché è presente nella pantomima e come mai affascina ancora oggi l’essere umano iper-tecnologico e poco connesso ai ritmi della natura? Può ancora attualizzare un mito antichissimo per gli uomini e le donne moderne?
L’Uomo Cervo di Castelnuovo è un magico genius loci delle Mainarde e, allo stesso tempo, una delle innumerevoli epifanie del dio-cervo diffuse in tutto il mondo. Il suo ruolo nella pantomima molisana è centrale: è lui a incarnare la rigenerazione senza fine del tempo e della natura. La dissoluzione della civiltà contadina e pastorale meridionale nel corso della seconda metà del XXI secolo è un passaggio fondamentale da ripercorrere al fine di collocare nella giusta cornice storica e culturale anche il rito di Castelnuovo. A metà ‘900 gran parte delle tradizioni legate al mondo contadino vennero accantonate in favore di un paventato e ineludibile ingresso nella razionalità, nella modernità e nel progresso. Nel giro di pochi decenni tale desiderio di emancipazione e di sviluppo si è infranto contro le contraddizioni del mondo post-moderno, soprattutto al Sud dove alcune problematiche si sono aggravate. Penso alla devastazione ambientale, alla disoccupazione, alle nuove ondate di migrazione verso il nord o l’estero. Ci si è resi conto, a volte troppo tardi, che barattare la nostra cultura tradizionale con inefficaci e disastrose politiche di programmazione dei territori, e della vita di chi li abita, stava portando a una società sempre più povera dal punto di vista culturale, oltre che economico. Ciò sta conducendo a un rinnovato interesse per le radici, per le appartenenze e per la cultura tradizionale: l’uomo iper-tecnologico proprio in virtù del suo imbarazzante scollamento dai ritmi della natura sta cercando le strade per riconnettersi ad essi. Non sempre, va detto, riesce ad imboccare la strada giusta. Ma il mito antichissimo che si scorge in controluce nel rito di Castelnuovo interessa anche l’uomo contemporaneo: il mistero dell’infinita e ciclica rigenerazione del tempo e della natura è qualcosa che interessa da vicino anche noi.
Nel libro riporti anche del materiale documentale che evidenza una ampissima distribuzione sincronica di riti collegati o collegabili ai cervi. Questo in che rapporto è con l’evento vissuto in un piccolo paesino molisano? Può considerarsi un relitto, un unicum o assume valori universalistici?
Una premessa importante da fare è che ogni rito, fiaba, canzone tradizionale o istituto folklorico va studiato e decifrato nella sua contingenza storica. Ciò che accade a Carnevale a Castelnuovo oggi è uguale soltanto a ciò che accade a Carnevale a Castelnuovo oggi. Per tale ragione la prima parte che analizza il rito è dedicata alla pantomima, ovvero alla dimensione attuale e “viva” in cui si muove l’Uomo Cervo. Chiarito tale aspetto non si può però non tenere conto degli isomorfismi (cioè “dalle stesse forme”) che connettono l’Uomo Cervo di Castelnuovo con numerosi altri esseri magici e mitologici diffusi in tutto il mondo. Connessioni formali non statiche bensì dinamiche, morfologiche ma anche e soprattutto simboliche. Tutte le epifanie dell’uomo cervo analizzate nel libro non sono accomunate esclusivamente dal copricapo cervide, dal costume ricavato dalle pelli di capra o dai campanacci legati al corpo. A connettere realmente tali epifanie sono elementi posizionati molto più in profondità: l’essere allegorie della rigenerazione della natura e del trionfo della luce, l’essere collocate nei periodi di passaggio tra anno vecchio e anno nuovo, l’essere tutte riconducibili a pratiche estatiche che permettono a chi interpreta l’Uomo Cervo di accedere a stati di coscienza non ordinari.
Nel film “Princess Mononoke”, incentrato sul rapporto “conflittuale” dell’uomo con la natura, del maestro Hayao Miyazaki. Il regista personifica lo spirito della foresta in un cervo dal volto umano. Può essere un richiamo all’Uomo Cervo di cui parli nel libro?
Non conosco il film, ma credo di poter affermare con una certa sicurezza che il regista si è lasciato ispirare dallo stesso tipo di creatura che ha ispirato anche la pantomima molisana o che nel mondo celtico ha forgiato la fisionomia al dio Cernunno. Restando in un ambito culturale più coerente con la tua domanda, non posso non sottolineare che la Shishi Odori, la “danza del cervo” giapponese, è la ritualizzazione di un mito legato al rapporto magico tra uomo e cervo in cui l’animale incarna uno spirito della foresta capace di rigenerare e di guarire.
Nell'opera parli del soffio del cacciatore nell’orecchio del cervo abbattuto che lo riporta in vita. È un soffio, è una parola? Quale valenza simbolica o significato si manifesta in quel gesto? Il Cacciatore ti ha raccontato qualcosa a riguardo?
Il rito di Castelnuovo ha alcuni momenti topici, il soffio rivitalizzante del cacciatore è uno di questi. Si tratta di un elemento che dal punto di vista simbolico richiama lo stesso tipo di concetto racchiuso nel greco “pneuma”, inteso come soffio vitale. La scena del soffio è probabilmente quella che affonda più in profondità nel passato e si collega agli antichi rituali di caccia. Il cacciatore non si preoccupa esclusivamente di fermare la furia dell’Uomo Cervo uccidendolo ma anche di riportarlo in vita: tale elemento restituisce una tensione verso la costante ricerca di equilibrio tra cacciatori e prede tipica delle società in cui la caccia era il mezzo principale di sopravvivenza e per tali ragioni non apparteneva alla sfera del profano bensì a quella del sacro. La caccia come rito e il rito per propiziare la caccia. Il nucleo centrale dell’affascinate pantomima di Castelnuovo risiede proprio nella scena del soffio, probabilmente in origine l’Uomo Cervo era impersonato da un cacciatore e il costume del rituale era anche un travestimento utilizzato nel corso delle battute di caccia per avvicinarsi quanto più possibile ai cervi senza destare la loro attenzione: un espediente – quello del travestimento in animale – utilizzato dai nativi americani fono alla fine del XIX secolo. Chi oggi interpreta il ruolo del cacciatore nella pantomima chiaramente non è preoccupato dallo stesso tipo di implicazioni di carattere sacro e magico, nonostante ciò chi recita la parte del cacciatore è profondamente investito da un senso di responsabilità verso l’intera comunità ai fini del compimento del racconto!
La presenza del seminatore sembra sancire un passaggio di un’era. Semplificando, testimonia il transito dal mondo dei nomadi e cacciatori a quello degli stanziali e agricoltori e ancora più semplificando, da quello della natura selvaggia (caos) alla cultura (ordine), quali altri significati può assumere?
L’archeologa lituana Maria Gimbutas nel suo “Dei e dee dell’antica Europa” sottolinea come la figura del cervo sia stata centrale per le antiche società di cacciatori ma anche profondamente assimilata nell’orizzonte sacro delle prime civiltà agricole. Il cervo, in virtù della ciclica rigenerazione del palco di corna, è stato da sempre considerato una manifestazione dello spirito del grano: il chicco ha bisogno di morire sotto terra per poter rinascere e produrre nuove spighe, proprio come accade con l’Uomo Cervo di Castelnuovo che ogni anno muore con la morte dell’inverno e rinasce insieme alla natura primaverile. Tale elemento simbolico legato alla figura del cervo, risalendo la linea della storia, non è sfuggito alla teologia cristiana che ne ha decretato la funzione di animale cristologico per antonomasia.
Sei partito seguendo le Janare e sei finito a inseguire l’Uomo cervo. Ma il tuo interesse per queste figure legate alla nostra terra è rimasto. Ti dedicherai ora a questa materia o seguirai altri richiami sorti durante questa fruttuosa deviazione?
“L’Uomo Cervo” è stata una proficua casualità, continuerò chiaramente a cogliere le infinite possibilità che il caso nasconde quando queste si presenteranno. Sono però al lavoro – dopo anni di ricerche in giro per il Sud – per la stesura del saggio sulle Janare: anche in tale caso oltre a ricostruire lo strato folklorico, ovvero quello relativo alla narrazione popolare, cercherò di decifrare questa interessante figura sotto le prospettive della storia delle religioni e dell’antropologia del sacro. Con tanto materiale inedito.
Ci sono altri progetti in cantiere non solo editoriali?
Ci sono anche altri progetti che, in ogni caso, si muovono negli stessi territori. Continuerò la mia collaborazione con il Museo Contadino di Pignataro, sto cercando di dare vita a un progetto itinerante sempre legato al magismo contadino, e sto registrando un disco in cui, grazie ad alcuni amici, sto rielaborando alcuni temi e “sapori” della tradizione musicale meridionale e mediterranea. Chiaramente con un occhio di riguardo per tutto ciò che è magico, fiabesco e misterioso.
La tua azione si può considerare politica nella misura in cui raccogliere le ultime testimonianza di un mondo che sta scomparendo come opera necessaria per dare radici alle nuove generazioni?
Non vorrei dire una banalità ma ritengo che ogni cosa che facciamo sia “politica”. Ritorna centrale il discorso sulla dissoluzione della civiltà contadina e sulle persistenze del magismo rurale. Ci sono però due ambiti ben distinti di azione: il primo, tutto nel campo dell’antropologia storica, riguarda gli elementi scomparsi del tutto; il secondo, per certi aspetti più interessante, si muove nella dimensione delle persistenze e delle trasformazioni degli istituti tradizionali: è il caso de “L’Uomo Cervo” ma anche di alcuni studi sul malocchio effettuati tra fine 2021 e inizio 2022. Queste ultime sono tutte epifanie contemporanee del pensiero magico. Ringrazio te e la redazione per questa bella chiacchierata, invito i lettori ad acquistare il libro sia per conoscere meglio il meraviglioso rito di Castelnuovo sia perché credo che una delle caratteristiche principali de “L’Uomo Cervo” sia quella di contribuire a riaccendere l’attenzione verso alcuni temi che oggi incontrano un rinnovato interesse.

Intervista a cura di Laura Coletta e Vittorio Palmieri