Mahsa Amini, uccisa a 22 anni perché portava “male” il velo

Mahsa Amini uccisa a 22 anni perché portava “male” il velo

Mahsa Amini, ventiduenne iraniana, è morta dopo essere entrata in coma lo scorso martedì sera in seguito a un arresto “arbitrario – scrive Amnesty International – dalla cosiddetta Polizia per la Morale” a Teheran perché non portava il velo in modo “corretto”. Dalle presunte torture durante la detenzione, si è giunti a un referto medico: le percosse subite dalla Polizia della Morale avrebbero portato la ragazza alla commozione cerebrale. In questi giorni, molte iraniane stanno protestando tagliandosi i capelli e bruciando i propri veli, urlando “Donna, Vita, Libertà”.

Arrestata la fotoreporter Yalda Moaiery per aver ripreso queste scene, esercitando il diritto di cronaca. Hadis Najafi, ventenne coinvolta nelle proteste, è stata brutalmente uccisa poche ore fa da sei proiettili mentre manifestava per Mahsa e la libertà delle donne.

Il velo è femminista? La libertà esiste solo nella parità di diritti e nell’autonomia di scelta

Sono ore dure, in cui sorgono tante domande: da che punto muovere il proprio pensiero? Come osservare lo strumento del velo? Guardando una stagione di Skam Italia incentrata su Sana, ragazza italo-tunisina, musulmana praticante (e per questo schernita e velatamente discriminata da diverse persone nel contesto scolastico), e che vive la fede con serietà e devozione ma senza rinunciare, nei suoi limiti, allo svago e al divertimento, ci si imbatte in una battuta, affidata al suo personaggio dagli sceneggiatori: “Il velo è femminista”. Quando Sana dice che si sente femminista e libera io ho un moto di tristezza, perché secondo me questa affermazione manca di contestualizzazione.

Mi sono confrontata spesso con chi sostiene questo, anche all’interno di gruppi femministi: se ti arrestano o ti picchiano se non lo porti o se lo porti male non è una scelta libera e “femminista”. Si potrà dire “la scelta è mia” – ma nemmeno tanto – solo in uno stato dove non c’è né una monarchia, né una teocrazia, né una dittatura, uno stato dove la cittadina è un essere umano di pari diritti e pari libertà, sanciti da una Costituzione, al pari degli uomini. Risale al 1948 la Dichiarazione universale dei diritti umani, un documento sui diritti della persona che è frutto di secoli di rivoluzioni e cambiamenti sociali, che però non fu accolta ovunque con entusiasmo. Nel 1981 fu proclamata, in sua risposta, la Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, che pone la legge dell’uomo in secondo piano rispetto alla Legge Divina. Si afferma pertanto l’impotenza dell’individuo e della società a intervenire su ciò che è considerato eterno e immutabile poiché di natura ultraterrena.

Le donne sono «il primo ente di controllo delle altre donne che osano essere più libere»

Il problema non è il velo in quanto tale, in fin dei conti, in un sistema di autonomia di pensiero una donna può indossare ciò che vuole; il vero problema è cosa nasconde il velo: una cultura maschilista che si è imposta nei secoli a varie latitudini e con varie forme e che continua, anche nelle donne che ne sono vittime, ad essere interiorizzata. Io stessa ho dovuto combattere,  all’interno del mio privilegio da bianca istruita occidentale, ma donna e del meridione, con il mio maschilismo interiorizzato. Ho destrutturato e sto de-strutturando lentamente il mio pensare la donna: comprendo che i miei desideri forse non erano miei, ma orientati da una cultura di fondo che invadeva i miei pensieri.

Pensavo di oppormi a un modello oppressivo (le signorine non possono fare questo o quello, devi essere pudica, non puoi affrontare questo o quell’argomento, non farti dare della z*ccola, fai i figli, parla di frivolezze e altri luoghi comuni), ma comunque lo continuavo ad alimentare, dall’altra sponda, quella delle reiette. Andavo in conflitto con le donne che mi rifiutavano – perché loro, come meravigliosamente spiega Schopenhauer, sono il primo ente di controllo delle altre donne che osano essere più libere – e allora giù critiche, aggressioni velate, negazioni finché non ho preso ad odiarle per i loro limiti. Ora, invece, non le odio più, le vedo come vittime di un sistema di (dis)valori che le ha contagiate e cerco di manifestare loro una forma di sorellanza.

La cosa buona del femminismo è che esistono tanti femminismi ma ovviamente non possiamo pensarla tutt* allo stesso modo. Riflettere è necessario; non si può tagliare corto etichettando persone e comportamenti quando una questione si fa spinosa. Dare “dell’islamofob*” a chi desidera ragionare su determinate questioni è solo un deterrente morale, che non dovrebbe allontanarci dal riflettere. Il sentimento religioso non c’entra nulla con questo editoriale; il sentimento religioso di ogni persona è unico e meritevole di rispetto e tutela. Quello che vogliamo analizzare è ben altro, e lo si può trovare anche in altri testi religiosi o regole implicite/imposte di società antiche o moderne. Le etichette denigratorie non possono essere “parole magiche” per farci chiudere un discorso. Non bisogna avere paura, altrimenti si rischia di supportare degli ossimori per paura di essere criticati come “spregevoli haters” e tacere davanti alla sofferenza delle persone.

La questione non riguarda solo il velo, ma anche il suo contrario. La questione riguarda le donne e il modo in cui il pensiero patriarcale si insidia pubblicamente o celatamente nelle vite di ciascuna, attraverso leggi, proclami, pubblicità, moralità, assistenza sociale negata, “tetto di cristallo”, negazione del ruolo della cura, gender pay gap, gender gap sanitario e via dicendo. Se il velo rappresentasse una scelta come quella delle Amazzoni, una forma di “empowerment” in barba alla cultura vetusta del patriarcato, andrebbe più che bene. Ma coprire una donna significa semplicemente allontanarla dal desiderio sessuale virile. Renderla meno appetente. Quando non si può oggettualizzare o comprare, quando non diventa un giocattolo di marketing con cui vendere auto e profumi, i centimetri di pelle coperta di una donna, nel mondo dell’oppressione virile, fanno passare la differenza tra colpevolezza e innocenza della vittima di uno stupro (“Quanto era coperta? Cosa indossava?”). Nude o coperte, insomma, mai libere del proprio corpo, costantemente oppresso e moralizzato

Siamo ancora vittime inconsapevoli: prigionieri nei nostri ruoli uomo\donna

La donna e l’uomo moderno sono ancora vittime di ruoli predeterminati, che ne condizionano i comportamenti. Il sesso biologico è, difatti, discriminante dalla nascita. Perseguita l’individuo nella sua crescita, realizzazione personale e professionale, in ragione di un determinato corredo cromosomico. Un esempio sciocco: provate ad offrire una cena a un uomo. La “cavalleria” è solo presunta. Cela, in realtà, il fatto che fino a pochi anni fa le donne, non avendo uno stipendio o lavorando in maniera non riconosciuta, non potevano avere denaro proprio. Con la possibilità di accedere allo studio e al lavoro, il potere economico di una donna può mettere in soggezione un uomo vittima di un pensiero patriarcale: oggi è normale che, tra amici più giovani, una donna paghi ciò che si consuma. Ma ancora ci sono uomini, più o meno giovani e appartenenti al pensiero laico o religioso, che sentirebbero messa in discussione la propria virilità e sperimenterebbero qualcosa di molto prossimo alla sensazione che si proverebbe nell’essere castrati.

Per superare questi ruoli obsoleti è necessario spezzare i paradigmi che ci imprigionano in essi,  ma non scordiamo da dove vengono le cose che ci permeano. Non scordiamo la psicologia dei gruppi sociali, la psicologia che studia i sistemi e le relazioni. Non scordiamo che non è solo il velo, ma anche il suo contrario, ad esempio quando dicono che è empowerment andare di bisturi perché si vuole assomigliare alle Kardashian. Ci siamo costruiti una retorica fatta su misura per dire che siamo libere e inattaccabili quando ci rode il tarlo del maschilismo ed il patriarcato si impone subdolamente come un lupo tra le pecore. Non si salva nessunə, se non siamo prontə a riconoscere che siamo intrisə e non liberə.

L’anima della ragazza uccisa, dalla polizia della moralità, per il solo fatto che non portava “nel modo giusto” il velo riposi in pace e nella grazia. Ma non scordiamo il suo nome: Mahsa Amini, ennesima vittima, non solo di uno stato teocratico, ma delle nostre scelte quotidiane. 

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Mahsa Amini uccisa a 22 anni perché portava “male” il velo

di Redazione Tempo di Lettura: 5 min
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