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La rabbia di Pasolini di cui abbiamo bisogno

Nelle Lettere luterane, raccolta di Articoli di Pier Paolo Pasolini (Pier Paolo, non Gianpaolo, come l’ha ricordato male la Casellati al Senato, in occasione dei 100 anni dalla nascita), così vengono definiti i politici: « Non solo restano al potere, ma parlano. Ora è la loro lingua che è la pietra dello scandalo. Infatti ogni volta che aprono bocca, essi, per insincerità, per consapevolezza, per paura, per furberia, non fanno altro che mentire. La loro lingua è la lingua della menzogna. E poiché la loro cultura è una putrefatta cultura forense e accademica, mostruosamente mescolata con la cultura tecnologica, in concreto la loro lingua è pura teratologia. Non si può ascoltare. Bisogna tapparsi le orecchie.»

Cosa penserebbe l’autore se potesse osservare il circo delle false nostalgie del suo pensiero, da parte di una classe politica che riconosce il valore della verità solo in chi non può più parlare! Lo scenario da Lui previsto si è realizzato: il teatro delle borghesie inaugura ogni giorno la messinscena della buona amministrazione, della finta etica, della antica e rattrappita morale. Nella stessa sala e tra le stesse sedie in cui viene commemorato l’intellettuale poeta, si sceglie di finanziare le industrie belliche, si è ancora dalla parte della guerra (pur fingendo di non esserlo), un Presidente del Consiglio ci chiede se preferiamo la pace o i condizionatori, sbeffeggiando ogni risurrezione empatica, ogni ritorno all’umanità, come fosse un vezzo della coscienza, tipico atteggiamento di chi vive nel benessere . Invece piangono le nostre tasche, si opacizzano i nostri futuri, l’incedere claudicante dei nostri giorni toglie forza e coraggio alle nostre azioni e ai nostri pensieri. Altro che pacifismi di forma o slogan di circostanza, il popolo esiste ancora ed è sempre più esausto, le forbice sociale è ormai tanto ampia da non potersi più risanare.

Pasolini anche sulla guerra fu illuminante: «Finché l’uomo sfrutterà l’uomo, finché l’umanità sarà divisa in padroni e servi, non ci sarà né normalità né pace.» C’è un brano de La rabbia di Pasolini che per la sua bellezza mi ossessiona da sempre, che si presenta come un omaggio a Marilyn Monroe, ma è molto più di questo. Parla del mondo, parla dell’America, parla della bellezza, parla della morte. In questi giorni ho avuto l’esigenza di riascoltarlo dopo aver visto in televisione gli occhi azzurri e i riccioli biondi di una bambina meravigliosa accampata in un bunker antiatomico, triste e spaventata. L’interprete le ha chiesto cosa provasse e ha risposto che aveva paura, che era stanca. Alla domanda su quale fosse il suo desiderio ha accennato un sorriso «che domani mattina apro gli occhi ed è tutto finito. E torniamo a giocare.» Prendendo le distanze da ogni demagogia o strumentalizzazione, fisso questa potente immagine per riproporre la parte finale del monologo di Pasolini, con la speranza (maledettamente resistente) che la bellezza possa convincere anche i peggiori tra gli uomini a tornare a preservare il mondo:

«La tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico, richiesta dal mondo futuro, posseduta dal mondo presente, divenne un male mortale. Ora i fratelli maggiori finalmente si voltano, smettono per un momento i loro maledetti giochi, escono dalla loro inesorabile distrazione, e si chiedono: «È possibile che Marilyn, la piccola Marilyn, ci abbia indicato la strada?» Ora sei tu, Quella che non conta nulla, poverina, col suo sorriso, sei tu la prima oltre le porte del mondo abbandonato al suo destino di morte.»

Emi Martignetti