Jodorowsky e il cinema come atto psicomagico collettivo

Nel suo ultimo film “Psicomagia. Un’arte per guarireil regista-terapeuta Alejandro Jodorowsky spiega che ha dovuto inventare la “psicomagia” per porre rimedio all’inefficacia della psicanalisi, preferendo all’uso medicalizzato della parola una gestualità artistica e iniziatica.

In breve: azioni più che parole, perché con l’inconscio non si ragiona. «Non possiamo – riassume il maestro dell’onirico – insegnare all’inconscio a parlare il linguaggio della realtà, ma possiamo insegnare alla ragione a parlare il linguaggio del sogno». Il processo, specifica, è l’opposto di certe pratiche surrealiste mirate a trasportare i sogni nella vita ordinaria. E lo è sicuramente rispetto al metodo paranoico-critico di Dalì, imperniato sulla «sistemazione più rigorosa dei fenomeni e dei materiali più deliranti».

Tuttavia “surrealtà”, nella sua piena accezione, indica una realtà ugualmente distante dai momenti di sonno e veglia, di cui rappresenta una superiore unione: in quest’ottica, più che un’alternativa, quella di Jodorowsky sembra una delle possibili vie di conciliazione, e si può dare ragione alla dottoressa Wikipedia quando definisce la psicomagia come «ultima frontiera del Surrealismo». Il sentiero c’era già: nella pratica secolare di una guaritrice messicana, il giovane Jodorowsky intravedeva infatti un modo di agire simile a quello surrealista. Prendiamo un paio di storie dal film: una sposa corona il suo sogno d’amore con una marcia nuziale al cimitero (dove giace il marito morto suicida poco prima della celebrazione) per liberarsi per sempre di un tetro abito mentale; un uomo risolve i suoi problemi familiari affrontandoli con delle (più docili e ragionevoli) zucche addobbate con le foto dei parenti. L’antologia cinematografica delle azioni terapeutiche dell’artista cileno sa effettivamente di “cadaveri squisiti” e associazioni surrealiste.

Gli «atti effimeri psicomagici apparentemente privi di logica» fondano la propria potenza simbolica e poetica nello stesso terreno della poesia di Isidore Ducasse e dell’arte di Giorgio De Chirico. Come ha statuito Ducasse con l’«incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio», c’ è tutto un mondo di nessi semantici subatomici che garantiscono i legami più profondi tra ciò che più appare lontano e inconciliabile. Accostando una scultura classica mutila con un casco di banane, la metafisica di De Chirico ha da tempo rappresentato la vera natura, più onirica che logica, delle relazioni fondanti dell’esistenza.

Una verità che la ragione mal sopporta ma che non può negare, se non vuole costringere l’esistenza in una gabbia di credenze astratte disancorate da ogni realtà interiore, che ammala la mente come la prigione sfianca il corpo. Una gabbia che la psicanalisi ha imparato a scardinare a caro prezzo, e non senza creare nuove prigioni, con una dichiarazione d’intenti da brividi impressa a caratteri cubitali sulla prima pagina de “L’interpretazione dei sogni” di Freud: «Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo», ovvero «Se non riuscirò a muovere gli dei del cielo, smuoverò gl’inferi». «La psicanalisi – ha commentato l’esoterista Renè Guènon – non può avere altro effetto che ricondurre alla superficie tutto il contenuto di quei “bassifondi” dell’essere, che costituiscono ciò che si chiama il “subcosciente” (all’interno dell’inconscio, Guènon distingue nettamente il subconscio da un “superconscio”, ndr). E l’essere, cioè la personalità umana, è già per ipotesi psichicamente debole, perché, se fosse altrimenti, non si sentirebbe affatto il bisogno di ricorrere ad un trattamento di tale specie, come la psicanalisi. Si corre dunque il preciso pericolo di precipitare irrimediabilmente in un caos di forze tenebrose imprudentemente scatenato».

Per usare ancora le parole di Jodorowsky, insegnare al subconscio a parlare il linguaggio della realtà (qualora possibile) significa portarlo in superficie, dotare i balbettanti bassifondi dell’anima di un’arma di prim’ordine, laddove insegnare alla ragione a parlare il linguaggio del sogno significa dilatarla e portarla a comprendere più profondamente se stessa. Una comprensione che appacia il bisogno, particolarmente pressante nella nostra società della comunicazione malata, di essere ascoltati e compresi dagli “altri”. Adeguarsi al mondo è follia, adeguarsi a comprendere il mondo è la più grande possibilità. «Non sento più il bisogno di risolvere i miei problemi con mia madre», spiega una delle protagoniste del film. Qualsiasi mancanza altrui può avere effetti solo in quanto contribuisce a offuscare l’immagine di sé, a incrinare i cristalli sottili della personalità: una volta riparato il vetro rotto, a poco giova sistemare la questione col pallone, se non per un’utilità sociale.

Pecca del film è forse proprio la difficoltà di approcciare un così vasto orizzonte di riferimenti, con il rischio di puntare l’attenzione sull’opera di un guaritore anziché sulla liberatoria bellezza di un mezzo artistico e fantasioso di disancoramento personale. Ciononostante la pellicola ha un indiscusso valore e fascino, ed è significativo che il Cinema Teatro Massimo di Benevento, dove abbiamo visto il film, abbia scelto questo titolo per ripartire. Il cinema nasce come arte dell’illusione per eccellenza e anche ciò che non è “reale”, mostra Jodorowsky, ha effetti estremamente reali sulla realtà. «Sentimenti privi di concretezza nel mondo delle cose, e alle volte creati in maniera artificiale, come paura e paranoia – commenta l’esperto di comunicazione Marco Agustoni – hanno risultati concretissimi sulle persone e sulle società».

In un mondo devastato emotivamente e culturalmente dalle narrazioni fittizie dei media, la luce irreale del buon cinema può realmente contribuire a disintossicare la mente e riossigenare l’anima. Da questo punto di vista il vecchio cinema cittadino, rigorosamente monosala, che è rimasto fuori dai diktat della grande distribuzione, può ancora offrire appieno quell’atto psicomagico collettivo che è la fruizione collettiva di un film. Laddove lo spettacolo cinematografico vero è un intreccio di trama e trambusto, nodi narrativi e trame esistenziali.

Alessandro Paolo Lombardo
foto di copertina Rossella Di Micco