Lorca, il corpo col botto

Con le ferite e i lividi di Federico García Lorca esposti a Palazzo Paolo V finisce l’edizione 2012 di Benevento Città Spettacolo

Prima di poter fare bilanci sulla trentatreesima edizione di Benevento Città Spettacolo, occorreva una chiusura degna, col botto oseremmo dire, perché i tric trac si addicono di più alle notti bianche di pseudo-cultura. Ci ha provato Enzo Mirone con il suo Lorca, studio primo di scena a Palazzo Paolo V, proprio nella serata conclusiva del festival. Ha consegnato al pubblico di cultori di  cultura un prodotto difficile da decifrare, una perla barocca che lascia tutti un po’ straniti, avanguardisti e non di questa città troppo spesso abituata a perdersi nella trama, nel trionfo della parola, a volte sostituita facilmente da un copia-incolla risolutore.

Con questo spettacolo non si può fare, non per deontologia professionale, ma perché le parole sono ridotte al minimo, quasi fossimo di fronte ad un film di scuola coreana, che solo recentemente sta iniziando ad essere apprezzata a dovere. Neanche il citazionismo wiki-pedestre può essere d’aiuto.  Lorca c’è, ma non si sente, ad essere poco attenti neanche si vede. Ci si perdoni il gioco di parole, è un’orca assassina che si muove tanto silenziosa, quanto implacabile. Potremmo dire, aggrappandoci al nostro amico Derrida – uno che a teatro andava spesso, per imparare l’arte della significazione – che Lorca non è citato, ma eccitato, stimolato, affinché semini, o per meglio dissemini, sul palco gli stessi caldi schizzi di passione vitale e mortifera, di cui traboccano i suoi scritti.

«Vedrete voi stessi tutto lo spettacolo. In esso si valorizza il corpo umano, così trascurato nel teatro. Bisogna presentare la festa del corpo dalla punta dei piedi, in movimento di danza, fino alla punta dei capelli, il tutto presieduto dallo sguardo, interprete di ciò che sta dentro. Il corpo, la sua armonia, il suo ritmo, sono stati trascurati da questi signori che impiantano sulla scena personaggi con il cipiglio, seduti con il mento nella mano e che incutono paura fin dal primo momento. Bisogna rivalutare il corpo nello spettacolo. A questo io tendo.»

Ma come seguire le orme  di Lorca, senza scegliere la facile via della parola? Basta affidarsi ad uno strumento ancora più efficace, che nasce con la parola, se non la precede addirittura: il corpo. Mirone  indossa la maschera lorchiana, ne segue le tracce, ma se ne sa anche distanziare,  tracciando solchi autonomi. Mette in scena le grandi ragioni del corpo, semplicemente invertendo il rapporto vita-scrittura. Lorca traduceva la propria in grafemi, Mirone li prende e li ri-traduce in linguaggio corporeo e vitale. I suoi attori si dimenano tra amori vorticosi, gelosie, tradimenti e religiosità bigotta, con azioni ripetitive e convulse il cui comune denominatore è la tensione corporea, il toccare il limite.

A Benevento, diciamo ancora parafrasando Lorca, c’è un luogo dove i ragazzi hanno smesso di parlare, condannati a morte dalla tristezza. Nell’atrio di questo habitat in sospensione emotiva, che chiameremo simbolicamente Palazzo Paolo V, si è rifugiato un mostro che l’onirico non ha voluto penetrare. Flagellandosi con sottilissime e acuminate pagine ha dominato le mollezze umane mettendo in scena le sue, le loro, le vostre ferite sotto forma di architetture di corpi. Architetture psicologiche. Impalcature di suoni svociati, emanati direttamente dalla carne senza il filtro della ragione.

Ma la gelosia, quella c’è. Un pensiero tattile, quasi, incastonato tra l’osso frontale e il parietale, in quella fessura che nemmeno la vita ha cura di ricucire quando la fontanella chiude i rubinetti. Il mostro li vuole tutti schierati innanzi a sé, questi non pensieri, e li fa secernere da un enorme e continuato sforzo corporeo, innescato dalle banali trame di abbandoni uomo-donna. Vuole del sudore, e ciò che sembra un finissimo studio di teatrodanza, di corpo bollito per distillare allegoria, produce sudore. Sudore e affanno. Strana alchimia che estrae le sostanze elementari dal corpo del mondo soltanto per esporle.

È un eccedere, senza bisogno di eccessi, non ci sono neanche nudi pruriginosi, solo movenze  sincopate tra il surreale, l’assurdo e il meccanico. Spesso i diversi frammenti si chiudono con dei tonfi, con cadute quasi da stuntman, che hanno un qualcosa di musicale ed evocativo. Non ce ne vogliano gli attori, ma il loro botto finale, i loro probabili lividi sono il segno migliore di come la vita, soprattutto se vissuta con la stessa intensità dei personaggi di Lorca, ti sappia segnare dapprima nel corpo e poi nelle pieghe dell’anima, che il più delle volte sembrano inadatte ad essere tradotte in parola. Il testo lorchiano è dunque solo un pretesto per redigerne un altro, fatto di memoria viva e incarnata, nell’involucro di carne che noi stessi siamo, labirinto in cui, purtroppo o per fortuna, si è destinati a perdersi ripetutamente, anche a costo di restarne intrappolati.

Guido Bianchini e Alessandro Paolo Lombardo

 

Ideazione e scrittura scenica di Enzo Mirone
produzione Malamùt unde Malingut Teatr e Cooperativa Immaginaria
con Ilaria Masiello, Alessandra Rinaldi, Natale Cutispoto, Luigi Furno, Ursula Iannone, Martina Iorio, Selvaggia Filippini, Riccardo Pisani, Laura Racchi